LXXIII, N. 3. Calamità e cultura / Calamities and Culture
Editoriale del direttore
Andrea Longhi
I disastri che colpiscono le comunità, gli insediamenti e le pratiche sociali hanno, nel corso della storia, interpellato la cultura nelle sue pieghe più profonde.
Le scienze più antiche e più radicate nella vita delle società, quali la filosofia e la teologia, si sono sempre interrogate sulle ragioni per cui la vita delle persone è periodicamente messa a repentaglio da disastri – riferendosi, appunto, alla sorte dettata dagli astri – o da flagelli – come se l’umanità fosse punita da sferze per ragioni etiche –, proponendo una pluralità incessantemente rinnovata di interpretazioni culturali dei fenomeni naturali. Quando nuove discipline e nuove tecniche si sono affacciate al mondo delle scienze, ha poi prevalso l’idea che le catastrofi – ossia i rivolgimenti che trasformano drammaticamente la vita delle persone – potessero essere controllate, misurate, o addirittura previste con strumenti quantitativi, oggettivi, che finalmente allontanassero dai drammi della vita le superstizioni o le devozioni più ancestrali e irrazionali. L’indagine delle cause fisiche dei disastri si è andata sovrapponendo all’investigazione sulle ragioni della possibilità dell’esistenza stessa delle catastrofi e del dolore umano. L’oggettivizzazione delle catastrofi, tuttavia, non ha eliminato le paure; anzi, la storia culturale della percezione dei rischi si è arricchita di sempre nuove angosce ambientali.
Gli intrecci tra la dimensione umana e la dimensione tecnica delle catastrofi, tra la documentazione dei fenomeni e la percezione delle loro cause, tra la realtà fisica e le psicosi collettive sono i temi studiati dalla storia culturale e sociale dei disastri – esemplarmente ricostruita da François Walter (Catastrophes. Une histoire culturelle. XVIe-XXIe siècle, Paris 2008) –, mettendo in dialogo le diverse scienze che si occupano del rapporto tra il pensiero umano e le catastrofi. Se certamente gli eventi disastrosi possono essere sempre più monitorati e – in una certa misura – prevenuti grazie ad analisi e progetti condotti secondo le tecniche più aggiornate, la dimensione umana delle catastrofi non è evidentemente eludibile: ogni rivolgimento rimette in discussione affetti, memorie e valori, coinvolgendo il senso più profondo della persona e della convivenza civile, ma interpellando anche le nostre conoscenze esatte e razionali, stimolando nuove ricerche e sperimentazioni. Anche le scienze “dure” e le tecniche non possono restare in un silenzio neutrale di fronte ai disastri: gli strumenti quantitativi hanno riproposto in termini nuovi il tema della colpa delle calamità, aggiornando lo spettro della dimensione etica delle catastrofi, portando l’attenzione sul degrado del territorio, sulla speculazione economica ed edilizia, sulla colpevole mancata prevenzione, sull’ignoranza delle regole degli ecosistemi. Sebbene la cosiddetta “società del rischio” privilegi – giustamente – le politiche di prevenzione (a fronte di una soglia di accettabilità del rischio sempre più alta nelle società benestanti occidentali), resta valido e viene aggiornato il principio delle cosiddette “società delle catastrofi”, che basavano il proprio apprendimento dagli insegnamenti tratti dalle catastrofi.
In sintesi, le dimensioni antropologiche delle catastrofi sono ormai profondamente intrecciate con le loro dimensioni fisiche: tanto le scienze umane, sociali e storiche, quanto le scienze naturali e le tecniche sono chiamate a favorire, cooperando, una conoscenza approfondita delle pericolosità e delle vulnerabilità cui le comunità sono esposte, al fine di far maturare la consapevolezza dei rischi e accompagnare la prevenzione.
Una Scuola politecnica che pratica – quotidianamente – il dialogo tra le diverse scienze e le tecnologie non può non offrire un contributo in tale direzione; al tempo stesso, una Rivista che – da sempre – affianca tale Scuola nella discussione e nella diffusione della cultura politecnica non può che ritenersi onorata dal poter offrire le proprie pagine per una divulgazione che, senza rinunciare a nulla in termini di competenza e precisione, vuole raccontare come la ricerca universitaria e la vita delle comunità non possano restare isolate.
Se ognuno dei tanti ricercatori coinvolti ha avuto modo di comunicare il proprio lavoro alle rispettive comunità scientifiche di riferimento – per una doverosa verifica tra pari dei metodi applicati, degli strumenti utilizzati e dei risultati conseguiti – è importante che emergano la dimensione culturale e il valore sociale del lavoro del Politecnico di Torino, inteso come comunità di ricercatori che non resta muta di fronte alle catastrofi, né si rifugia nel proprio anaffettivo mondo accademico. In una comunicazione scientifica sempre più settorializzata e competitiva, «Atti e Rassegna Tecnica» conserva l’aspirazione a narrare – oltre che documentare – che le sperimentazioni tecniche più innovative e specialistiche trovano la propria ragione d’essere in una coralità di impegno, che costituisce la ragion d’essere più profonda delle comunità scientifiche e delle comunità professionali cui il Politecnico e la Rivista si rivolgono.
Il Comitato Scientifico e la Redazione di «Atti e Rassegna Tecnica» ringraziano il Politecnico di Torino per la preziosa opportunità di poter condividere con un pubblico di lettori dalle competenze più varie un patrimonio di esperienze, che concretizza al meglio quanto i padri costituenti hanno auspicato: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» (art. 9). Cultura, ricerca scientifica e tecnica, paesaggio e patrimonio in queste pagine sono concetti che si concretizzano in gesti, che certamente concorrono al perseguimento del bene comune del Paese.
Buona lettura.
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