fasc. LXXIII, N. 2. Declaratio terminorum / Clarification of terms
Editoriale del direttore
Andrea Longhi
Secondo la tradizione argomentativa medievale di discipline “dure” quali la filosofia e la teologia, prima di qualsiasi dibattito o controversia è necessario dichiarare il significato dei termini che saranno utilizzati: la declaratio terminorum (o explicatio terminorum) serve per perimetrare l’ambito del discorso, esplicitare i valori in gioco, identificare con chiarezza i problemi di cui si sta parlando, riconoscere alleati e antagonisti. Peraltro, la necessità di fissare in modo ordinato e sistematico il valore delle parole ha segnato i momenti di crisi e di svolta della civiltà occidentale: per studiare i passaggi cruciali della cultura tecnica e architettonica, ad esempio, non ci si può non confrontare con le Etymologiae di Isidoro di Siviglia – prima grande sintesi enciclopedica successiva alla caduta di Roma, raccolta nella Spagna visigota (VII sec.) – o con l’Encyclopédie curata da Diderot e D’Alembert nel cuore della rivoluzione illuminista, per arrivare – e stringendo ancor di più il nostro ambito di lavoro – al Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica diretto da Paolo Portoghesi, la cui data di pubblicazione – il 1968 – basta da sola a evocare lo scenario di mutazione epocale in cui le parole cercavano una loro nuova collocazione. Per restare a un’altra data iconica, il 1989, non è un caso che – pochi mesi prima del crollo del muro di Berlino – Michele di Palombella rossa sostenga che «Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!».
Gli ultimi decenni – quale che ne sarà la periodizzazione definita dagli storici a venire – hanno visto venir meno le grandi narrazioni, le sintesi ambiziose, le enciclopedie sistematiche, superate dall’incessante flusso wiki della rete, dalla velocità con cui le definizioni emergono e si logorano, dall’incessante rimodulazione di ogni termine. Peraltro, la collaboratività partecipativa nella stesura delle definizioni – strumento wiki apparentemente democratico – estromette l’autorialità dai sistemi di ordinamento, oscura la tracciabilità delle definizioni. Lemmari, glossari e thesauri sono ormai strumenti fondativi di qualsiasi seria banca dati digitale, ma il valore strumentale e convenzionale delle definizioni è in ogni caso superiore al loro valore critico.
Questo fascicolo di «Atti e Rassegna Tecnica» – che accoglie agli Atti un dossier tematico di 14 contributi, e in Rassegna altri 9 articoli raccolti mediante open call – sembra attraversato da una certa tensione definitoria, da una ricerca documentata e critica sull’uso dei termini che parlano di città e territorio.
Apparentemente, il titolo del dossier curato da Marco Santangelo parrebbe negare tale istanza: Untitled sembra sancire l’impossibilità di definire, di dare un nome, o la rinuncia a esprimere categorie solidamente definite a fronte della “ibridazione” dei fenomeni, delle pratiche, delle destinazioni funzionali. Al contrario, i contributi offerti tentano espressamente di istruire la descrizione e la definizione di questioni che attraversano, in modo fluido e ibrido, la città contemporanea. Le discipline storiche e patrimoniali presentano «prove di definizione e riconoscimento», applicando i propri studi a spazi «indefiniti» e «untitled», tentando di chiarire metodi non solo di studio, ma anche di «gestione dei processi». Il dialogo tra storia e contemporaneità attraversa anche molti dei contributi di taglio urbanistico e geografico, come se – in qualche modo – la storia possa aiutare a definire, individuare e classificare non solo gli stati passati, ma anche le stratificazioni, le modificazioni, le ibridazioni. Le riflessioni sulla città contemporanea riguardano termini che rischiano di diventare logori prima ancora di essere applicati, quali «resilienza», «identità», «rigenerazione», «sostenibilità», «guida autonoma» Le definizioni proposte e discusse che tentano di assumere l’irriducibile dinamismo dei fenomeni complessi descritti, discutendo di «metodi», «approcci», «modelli», muovendosi nel quadro di discipline diverse, che vanno dalla pianificazione all’estimo, dall’energetica alla sociologia. Proprio l’intreccio tra discipline pone un ulteriore problema untitled: se la nostra rivista è espressione di una storica associazione di ingegneri e architetti, il dossier presenta contributi di pianificatori e urbanisti, geografi e sociologi, storici della città e dell’urbanistica, storici delle religioni e storici dell’arte. Gli autori più giovani, inoltre, presentano profili scientifici sempre più ibridi – anch’essi quasi “untitled” come l’argomento di studio – spostando le frontiere dell’interdisciplinarità oltre i paradigmi consueti. Per poter essere interdisciplinari, è necessario “titolare” le diverse discipline, esigenza che pare sempre più sfuggente. La complessificazione delle competenze esige specialismi sempre più stretti, il cui antidoto non può che essere una capacità di dialogo sempre più ampia, fondata proprio sulla chiarificazione dei rispettivi lessici specialistici. Dunque non solo la possibilità di acquisire e utilizzare i “dati” (o gli “shapefile”) raccolti e costruiti da altre discipline, ma anche l’apertura a sapersi lasciare investire da metodi e paradigmi ermeneutici su cui le altre discipline fondano il proprio sapere specialistico. Da questo punto di vista il dossier assume un interesse relazionale e dialogico, oltre che contenutistico.
La Rassegna, sebbene raccolta con il metodo dell’open call, mostra preoccupazioni e tensioni simili. Emerge dalla ricerca di alcuni giovani studiosi l’esigenza di dare un nome ai modi in cui certi pezzi di città si sono strutturati nel Settecento e nel Novecento, definendo pratiche di costruzione dello spazio urbano “ordinario”, finora “anonimo”, appunto. Le analisi attraversano questioni diverse, non solo urbanistiche, ma sociali, economiche e culturali in senso lato, che affrontano il tema del “mercato” attribuendo nomi, cifre, responsabilità personali. Ma emerge anche nella Rassegna il tentativo di descrivere in termini non strettamente “autoriali” opere di “autori” del Novecento – quali Fenoglio e Sartoris, riletti alla luce di dinamiche sociali complesse –, come pure il tentativo di dare nomi a paesaggi storici, mediando tra le parole delle fonti storiche e i significati attuali del paesaggio. Infine, i saggi di apertura, che descrivono l’operazione critica di dare un “nome” e un “titolo” a fonti seriali fondamentali per lo studio del territorio, le riprese aeree: un’attività preziosissima di archiviazione e metadocumentazione che attribuisce nomi e termini a immagini che rischiavano di perdersi nell’oblio amministrativo o nell’obsolescenza tecnica; nomi e titoli che consentono alle fonti di archivio di diventare open source e di contribuire al dibattito contemporaneo sulla città. Anche la Rassegna, come le Recensioni, offre riflessioni sulle ibridazioni delle figure professionali: geomatici, storici e paesaggisti offrono non solo competenze specifiche, ma visioni sull’architettura e sull’ingegneria che consentono di affrontare nuove sfide con sguardi diversi. Come quei «nuovi professionisti per la protezione del patrimonio culturale in tempo di crisi», chiamati a far fronte a disastri bellici – ma prossimamente sempre più anche ambientali e sanitari – che mettono in crisi il rapporto tra comunità e memoria.
Buona lettura.
Andrea Longhi,
Direttore di «A&RT»
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