a. LXX, N. 1-2-3. Il fattore umano / The human factor
Editoriale del direttore
Andrea Longhi
La Società degli Ingegneri e Industriali di Torino, sodalizio da cui trae origine la Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino, si costituisce nel 1866 con lo scopo di «promuovere l’applicazione della scienza alle arti ed alle opere di pubblica utilità» (art. 1 del primo statuto)[1]. «Pubblica utilità» era un’espressione tutt’altro che ingenua, generica o velleitaria. La utilitas publica è, infatti, uno dei perni culturali e giuridici attorno a cui è ruotata la costruzione della società romana, e da cui hanno tratto origine norme e prassi su cui si è fondata la travagliata convivenza civile europea, in particolare la cultura della tutela[2]. La «pubblica utilità», peraltro, proprio nell’anno precedente alla fondazione della Società era stata fissata come presupposto giuridico necessario per i procedimenti di espropriazione (L. 2359/1865), codificando una procedura in cui la discrezionalità delle scelte si potesse declinare con la certezza del diritto. Espressione dunque profondamente storica, ma al tempo stesso straordinariamente attuale e dibattuta, in quel 1866 in cui nasce la SIAT.
Nel secolo e mezzo che ci separa da quelle scelte impegnative, nel senso comune il concetto di utilitas con sempre minor evidenza è stato declinato con altre categorie valoriali fondative (il decor, o la venustas vitruviana, o la iustitia ciceroniana), per assumere significati variamente connessi a interessi parziali, circoscritti, sovente individuali.
Se già nel 1888 i riformatori dello Statuto avevano privilegiato la promozione disciplinare dell’ingegneria e dell’architettura, proponendosi soprattutto di «tutelare il decoro e gli interessi degli Ingegneri e degli Architetti», quale senso può avere oggi la rinnovata ricerca di un contributo originale e fattivo alla pubblica utilità, da parte della SIAT e della sua Rivista?
Questo primo fascicolo offerto alla fruizione open access su piattaforma digitale vuole essere innanzitutto un segnale, un inizio finalizzato a raccogliere quanto le comunità professionali, associative e accademiche propongono all’interesse collettivo. Tale ricognizione è condotta mediante un procedimento aperto di candidatura di temi, che vanno ad affiancarsi alle questioni frequentate dai Soci nelle proprie attività. È dunque particolarmente sentito il ringraziamento a coloro che hanno deciso di condividere generosamente i propri studi e le proprie esperienze professionali, fidandosi della credibilità della SIAT. Già in questo primo numero più di venti autori – con uno spontaneo equilibrio di genere e di formazione culturale – hanno offerto le proprie ricerche, in collaborazione con un nuovo Comitato Scientifico che ha avviato in questi mesi le proprie attività.
È lecito cercare un disegno coerente in un momento iniziale volutamente aperto, eterogeneo, plurale? Se non è corretto criticamente intrecciare a posteriori percorsi di studio nati autonomamente, può essere forse interessante avviare un programma di lavoro a partire dalle prime convergenze tra questi segnali iniziali.
Al centro dei saggi raccolti e delle iniziative recensite troviamo un evidente interesse per la persona, e in particolare per le persone organizzate in comunità. Senza scomodare paradigmi forti, ideologie consolidate o avanguardie di pensiero coraggiose, limitiamoci a segnalare come il fattore umano possa essere, al momento, l’elemento che la SIAT e i suoi amici offrono alla pubblica utilità, senza entrare in un’inutile competizione con istituzioni specialistiche. Tra le righe delle cento pagine qui raccolte possiamo leggere non tanto il tentativo di aggiornare quella cultura politecnica su cui la SIAT si fonda ‒ e che in modo così sereno e brillante Roberto Gabetti aveva problematizzato su questa Rivista nel 1990[3] ‒, ma piuttosto la decodificazione delle relazioni interpersonali tramite cui le culture tecniche assumono un ruolo sociale. La densità relazionale emerge dietro i gesti progettati, informa l’agire architettonico e le scelte tecnologiche. Le diverse discipline qui convocate si concretizzano tramite decisioni personali e collettive, assunzioni di responsabilità, sistemi relazionali formalizzati, e non tramite dinamiche deterministiche o tecnocratiche.
Raccogliamo alcuni fili tra i saggi, lasciando poi ai lettori più attenti il compito di segnalarne altri.
Le strategie familiari, le negoziazioni e i compromessi sono il sostrato in cui la professionalità di Giovanni Giacomo Plantery si declina in forme specifiche, riletta in un’interpretazione che porta spessore umano nelle vicende di un travagliato isolato torinese, che fino ai recenti restauri aveva “mascherato” la propria natura stratificata e conflittuale (saggio di Edoardo Piccoli). È in una festa di Capodanno, segnata incidentalmente da una malattia, che prende avvio un’esperienza imprenditoriale che declina architettura ed esigenze aziendali, cultura del lavoro e cultura dell’abitare, grazie alle iniziative tecniche ed edilizie della Utet di Giuseppe Pomba (articolo di Elena Gianasso). Nelle relazioni interpersonali e familiari si radica l’esperienza di Nicola Mosso, cittadino dell’architettura internazionale, oltre che cittadino biellese e torinese, che torna due volte su un medesimo edificio a distanza di venti anni, rispecchiando in esso sia la propria coerenza, sia una poliedrica e curiosa appartenenza a comunità scientifiche diverse, mediante la capacità di sapersi “rimettere silenziosamente in discussione” (intervento di Elena Vigliocco). Le comunità sono al centro delle considerazioni sui Programmi complessi di rigenerazione urbana e sul Programma Torino e le Alpi promosso dalla Compagnia di San Paolo (articoli di Francesca Bragaglia, Giovanna Segre ed Erica Meneghin): la costruzione di pratiche “su misura” e il supporto alla creatività culturale locale sono scenari in cui la partecipazione non è sinonimo di spontaneismo ingenuo, ma una tecnica consapevole e credibile di condivisione di valori e di costruzione di sistemi.
Le attività della Società – restituite dagli “Atti” e dalla nuova sezione delle “Cronache” – interpretano in modo paradigmatico come la persona possa essere al cuore delle culture tecnologiche più avanzate, secondo una duplice valenza. Da un lato si evidenzia la centralità delle comunità di utenti nella formulazione del progetto: le esigenze familiari, le stagioni della vita, la salute, la sicurezza; dall’altro lato, emerge il ruolo della formazione del progettista, inteso non come tecnocrate, ma come figura in cui si stratificano esperienze, competenze, relazioni, narrazioni, fallimenti e successi, illusioni e realizzazioni. Esperienze personali che devono sapersi tradurre in fatti politecnici, in dati e manufatti, progettati e realizzati. Il fattore umano è al centro sia del dialogo con Carlo Ratti, sia della preziosa testimonianza di Giorgetto Giugiaro, Socio onorario SIAT dal 2016. Progetto come luogo di relazioni, dunque, e come punto di intreccio di comunità: si pensi, ad esempio, all’incontro tra la cultura del restauro espressa dal Centro di Venaria e la cultura dell’auto depositata nel MAUTO.
La Rivista, per evitare l’autoreferenzialità, proporrà riflessioni su esperienze espositive, convegnistiche ed editoriali promosse da altri soggetti culturali e professionali. I percorsi saranno legati alle occasioni, ma – fin da questo fascicolo – le scelte non sono casuali: due personalità poliedriche, il duca Carlo Emanuele I e il pittore Defendente Ferrari, sono il perno attorno a cui ruotano le due mostre sul cui progetto culturale i lettori sono invitati a riflettere. Storie di comunità e di valori sono il presupposto dell’installazione artistica proposta da Franco Berlanda, radicata nella storia delle tragedie e delle aspirazioni del Novecento. La dimensione sociale della tutela, i processi di patrimonializzazione e le dinamiche partecipative sono al centro di altri racconti, ispirati dai convegni sul restauro di Santa Chiara a Torino (ora gestita dal Gruppo Abele), sul rilancio della Badia di Stura e sulle dinamiche partecipative nell’architettura ecclesiale. Itinerari, spazi, quartieri, edifici e territori sono presentati nelle recensioni, sottolineando come ciascuno dei luoghi narrati sia al centro della vita di una comunità, sia essa territoriale o tematica.
Volendo tentare una sintesi, le ricerche e le esperienze presentate nel fascicolo parrebbero intrecciate da un approccio personalista, non nell’accezione quotidiana di inopportuno e fastidioso protagonismo del personaggio, ma nell’accezione filosofica di personalismo inteso come atteggiamento che pone la dignità della persona al centro delle attenzioni della comunità, nel nostro caso della comunità scientifica e tecnica. Per argomentare queste brevi considerazioni, avrei forse potuto fare riferimento in modo più esplicito a letteratura filosofica, o sociologica, o antropologica, ma non avrei potuto farlo che in modo dilettantesco, e dunque contraddittorio con la natura multidisciplinare e politecnica della Rivista, su cui il dibattito potrà proseguire con voci plurali e competenti. Una sola concessione letteraria: il titolo dell’editoriale è infatti preso in prestito da uno dei maestri della narrativa del Novecento, Graham Greene (1904-1991). In The human factor, romanzo di spionaggio scritto nel 1978, l’autore racconta con sguardo antiretorico l’epilogo di un’epoca in cui i modelli ideologici hanno schiacciato le coscienze e le scelte personali: è il fattore umano che riporta ogni personaggio alle proprie responsabilità personali, alle proprie decisioni, nella consapevolezza che la libertà di scegliere – di essere fedeli, come di tradire ‒ è rischiosa e pericolosa, ma può incidere sul corso della storia; circa vent’anni dopo il romanzo, considerabile superficialmente come l’apologia di un traditore, sarebbe crollato il Muro di Berlino e sarebbe finito l’apartheid in Sudafrica, orizzonti di fondo della narrazione.
Se la nostra Rivista continuerà ad avere la fiducia della comunità scientifica, dei lettori e dei Soci, potrà forse rappresentare il “fattore umano” all’interno di un’editoria settorializzata, specializzata e iper-competitiva cresciuta, citando Roberto Gabetti, «nell’illusione che al massimo della separatezza corrisponda il massimo dell’approfondimento»[4].
Andrea Longhi
Direttore di «A&RT»
[1] Sulle vicende della fondazione della Società e sui primi statuti: Mauro Volpiano, Dalla Società Ingegneri e Industriali alla Società Ingegneri e Architetti. Fondazione e rifondazione della Siat, in « Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino», n. LXVII, 2013, n. 1-3, pp. 12-22.
[2] Salvatore Settis, Paesaggio, costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010, pp. 109 sgg. e 159 sgg.
[3] Roberto Gabetti, Sapere enciclopedico e sapere politecnico, in «Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino», n. XLIV, 1990, n. 6-7, pp. 211-217; si veda inoltre il fascicolo XLVIII, n. 3 su Cultura politecnica.
[4] Gabetti, Sapere enciclopedico cit., p. 214.
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