Editoriale

LXXVI, 1-2-3. Editoriale. Generazioni politecniche e culture umanistiche: saperi, dubbi, sfide / Editorial. Polytechnic generations and humanistic cultures: knowledge, doubts, challenges

Roberto Gabetti, affidando nel 1989 ad «Atti e Rassegna Tecnica» la pubblicazione della sua prolusione ai corsi del Politecnico di Torino, aveva probabilmente voluto rendere omaggio a quella tradizione di dialogo tra culture, di cui la Società degli Ingegneri e Architetti in Torino è stata promotrice fin dalla sua nascita, e di cui la rivista – fondata nel 1867 – è sempre stata luogo di riflessione e documentazione. La prolusione Sapere enciclopedico e sapere politecnico, pubblicata nel fascicolo 6-7 del 1990¹, ha segnato un punto alto per la riflessione della classe dirigente del Politecnico, che aveva il ruolo delicato di governare transizioni culturali, sociali e politiche decisive per il mondo dell’università italiana, che proprio tra il 1989 e il 1990 veniva riformata secondo la logica dell’autonomia; del resto, il ministro Antonio Ruberti – artefice del processo di riforma – era quell’anno presente in sala alla prolusione di Gabetti, voluta dal rettore Rodolfo Zich, figura di riferimento per le politiche universitarie nazionali. Inoltre, pare superfluo ricordare quanto il 1989-1990 fosse un momento di ripensamento radicale dell’Europa e delle ideologie su cui si era articolata e divisa.
In tale momento cruciale – per l’università, per il paese e per gli equilibri mondiali – Gabetti invitava a riflettere su uno dei fondamenti dell’Europa: il rapporto tra università, cultura degli enciclopedisti settecenteschi e scuole politecniche ottocentesche. Richiamando lo spirito dei philosophes, ricordava come «il riferimento alla razionalità era assieme esigenza di chiarezza e strumento scientifico. Alla base di tali concetti stava la certezza che ogni innovazione scientifica e tecnica potesse assumere valori sociali, diventare strumento per una ulteriore diffusione, e della cultura e del benessere: e ancora di quella gioia che viene dal capire un problema pratico, inserendolo in un quadro teorico». Le dinamiche di trasformazione sociali, politiche e industriali avevano tuttavia condotto nel Novecento a esiti sempre più frammentati, «nell’illusione che al massimo della separatezza corrisponda il massimo dell’approfondimento», determinando la parcellizzazione delle discipline, verso la quale «le università non hanno mai più preso seri provvedimenti». Nel quadro di separazioni sempre più accentuate tra teorie, modelli e approcci alla ricerca, nel corso del XX secolo «il tecnico apolitico e aconfessionale, disponibile ad eseguire qualsiasi operazione, la più separata, la più puntuale e ridotta, non è più riferimento operativo, né utile né necessario». La soluzione che proponeva Gabetti guardava dunque alla formazione delle prossime generazioni di giovani politecnici, per renderli capaci di «giudicare il loro stato presente, la loro ricerca futura. Quella condizione di dubbio che mette in discussione le certezze passate, che mette in gioco la nostra esistenza, è per ora la vera guida del futuro».
La capacità di giudizio autonomo, il pensiero critico, la discussione delle certezze sono rimasti, nei decenni successivi, obiettivi formativi al cui perseguimento le istituzioni politecniche hanno aspirato, con tempi e intensità diverse, sia con strumenti istituzionali (riforme di ordinamenti, fondazione di centri e luoghi di dibattito, messa a punto di insegnamenti, atelier e laboratori), sia con alleanze esterne al mondo accademico e innervate nella società civile e nel mondo imprenditoriale. Uno stimolo recente, che ha innescato molte delle vicende di cui dà conto questo fascicolo, è costituito dalla mozione condivisa sei anni fa nel Coordinamento dei Collegi di Corsi di Studio, in cui si osservava come «alcune capacità cruciali per il futuro dei nostri allievi – la capacità di apprendere autonomamente, il senso critico, la creatività, la capacità di lavorare in squadra, l’apertura interdisciplinare, il senso della complessità e della wholeness, la leadership – sono in gran parte affidate all’auto-apprendimento: con il rischio di riprodurre in questo modo quelle differenze iniziali di capitale culturale, sociale e relazionale che una grande scuola pubblica ha il compito costituzionale di rimuovere»². E più avanti si auspicava una rinnovata attenzione alla qualità, organizzazione e forma «degli spazi della relazione informale, dell’interazione imprevista, della qualità del tempo e della vita nel nostro Ateneo – gli spazi aperti, i luoghi del cibo, i luoghi del relax, il tessuto connettivo e distributivo, gli spazi dello sport, i punti di relazione con la Città. Perché rivedere il modello formativo significa ricordare che «i Politecnici sono nati alla fine del ‘700 per proporre un formato di trasmissione della conoscenza altro e radicalmente diverso da quello delle aule universitarie: basato sull’interazione tra teoria e prassi, sull’integrazione tra ricerca e didattica, sulla sperimentazione pratica e sul campo, sul mutuo apprendimento e orientato al servizio della collettività».
Gli obiettivi alti che le istituzioni formative si pongono, devono poi trovare formulazioni, mediazioni, alleanze e sperimentazioni concrete, verificate mediante il dialogo con una pluralità di soggetti attivi quotidianamente nel mondo delle professioni e dell’impresa. Nel quadro di tali alleanze, la Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino – con la sua rivista «Atti e Rassegna Tecnica» – è sempre stata un partner attivo del Politecnico, con il duplice obiettivo di portare nella comunità professionale le riflessioni accademiche, e di segnalare alla comunità universitaria le istanze del mondo del lavoro, della ricerca applicata e delle aziende.
Su questa tradizione di dialogo e di pensiero operante nasce il progetto, ma soprattutto il cantiere, che ha portato alla realizzazione di questo fascicolo, che testimonia il cammino che i due atenei torinesi hanno sviluppato negli ultimi lustri per ricostruire il senso storicizzato della frammentazione disciplinare, e per prefigurare percorsi di integrazione tra saperi. Quella «crisi» che Gabetti evocava nel 1989 era figlia di un secolo di conflitti ideologici e militari, di un’Europa divisa e di un mondo molto più “lento” di quello attuale: l’uscita da tale crisi, possiamo ormai riconoscerlo, ci ha riconsegnato un mondo segnato da sempre maggiori e impreviste incertezze. Ma il «dubbio» che sopra abbiamo richiamato è ben altro rispetto all’incertezza: è un “dubbio progettato”, pensato, costruito e verificato con strumenti alimentati dalla fiducia nei saperi, il cui prerequisito ineludibile è la capacità di dialogo che i saperi stessi devono imparare ad esercitare.
In sintesi, questo numero monografico di «Atti e Rassegna Tecnica» è stato voluto per raccogliere riflessioni ed esperienze sui rapporti fra quelle che definiamo “le due culture”, quella umanistica e quella scientifico-tecnica. Oltre all’aspetto scientifico, non si può infatti dimenticare la parola “tecnica”, soprattutto in un dibattito in gran parte centrato sulle scuole politecniche, e in particolare su quella di Torino, la città in cui è nata la SIAT e con essa questa rivista. C’è una componente banausica, ovvero artigianale, in ogni opera – anche alta – passata e presente, dell’arte e dell’ingegno. Chi aveva un’idea doveva saperla trasformare in opera, si trattasse della cupola del Brunelleschi o della pila atomica di Fermi. Ma anche chi scrive una poesia, dipinge una tela o scrive musica usa le “tecniche” che lo studio della lingua, dei colori e delle note gli ha fornito. Artigiani (e ingegneri) anche loro, oltre che poeti, pittori e musicisti.
Tuttavia, come sopra accennato e come attentamente ricostruito da Gabetti su queste pagine nel 1990, il crescente ricorso agli specialismi ha separato sempre più i ruoli. Negli ultimi tempi, la potenza della codificazione fisico-matematica delle buone pratiche ha permesso all’“artigiano-ingegnere” di occupare un ruolo centrale nell’economia e nella società. Ma come mai, ci si chiedeva qualche anno fa, nei politecnici di un Paese che da sempre fa sfoggio di creatività faticano a nascere idee nuove, magari in un garage, come raccontano le leggende californiane?
Nel quadro di alcuni tavoli e momenti di riflessione e progettazione voluti dal Politecnico, è emerso il convincimento che, alla lunga, l’insegnamento delle tecniche avesse progressivamente escluso tutto quello che non serviva direttamente alla realizzazione del progetto, quasi suggerendo che non fosse necessario creare un terreno fertile per la nascita delle idee che stavano alla sua base. La morfologia stessa delle aule politecniche sembrava indurre alla passiva ricezione delle nozioni, più che a far germogliare idee e dibattiti. Ancora oggi ci pare che la modifica del modello formativo degli ingegneri e degli spazi didattici che ne ospitano i contenuti possano dare un importante contributo al ricongiungimento delle “due culture”. I saggi presentati in questo fascicolo testimoniano la difficoltà, ma anche la passione nel perseguire obiettivi alti, mediante strumenti diversi, che vanno da progettualità didattiche, a piattaforme di ricerca, a riconfigurazione di spazi di relazione e di confronto, fisici e immateriali. L’auspicio è che questo fascicolo possa costituire un tassello significativo per docenti, studenti, professionisti e imprenditori delle “due” e delle tante culture, espressione di una cultura politecnica sempre alimentata dal dubbio.

 

1 Roberto Gabetti, Sapere enciclopedico e sapere politecnico, in «Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino», a. 123, n.s. a. XLIV, numero 6-7 (giugno-luglio 1990), pp. 211-217.
2 Mozione presentata da Gian Vincenzo Fracastoro e Matteo Robiglio al Coordinamento dei Collegi dei Corsi di Studio del Politecnico di Torino, 21 novembre 2016.

 

Andrea Longhi,
Direttore di «A&RT»

Gian Vincenzo Fracastoro,
Presidente SIAT, 2019-2021

PDF

 

Categorie
Editoriale