Editoriale

LXXIV, N. 2-3. Archeologia, visioni di territorio, visioni di società / Archaeology. Perceptions of territory and society

Editoriale del direttore

Andrea Longhi

 

Clément appartenait à une génération d’archéologues privilégiés qui avaient pu exercer leur métier sur des chantiers de fouilles plus grands et plus nombreux que ceux de l’Égypte et de la Mésopotamie réunies, chantiers qui présentaient en plus l’intérêt d’être ininterrompus sur des centaines de kilomètres – on possédait, à travers eux, les plus longs échantillons d’histoire qu’on ait jamais eus. […] Ces chantiers archéologiques étaient immenses. Ils représentaient jusqu’à 1% du coût d’une autoroute. L’incident du 21 décembre 1993 avait été causé par l’effondrement d’une galerie souterraine qui datait de la Première Guerre mondiale. L’archéologie préventive, qui était jusque-là apparue comme une contrainte économique insupportable, trouva sou-dain des arguments de sécurité très forts en sa faveur.

Aurélien Bellanger, L’aménagement du territoire, Gallimard, Paris 2014 (pp. 196-197 e 162).

 

La pianificazione e l’infrastrutturazione del territorio sono operazioni che richiedono competenze e professionalità sempre più diversificate, in ambito sia tecnico sia sociale. Soprattutto, però, i grandi processi di trasformazione territoriale hanno assunto sempre più il ruolo di vasti “teatri”, in cui vengono messi in scena i conflitti e le alleanze tra un ventaglio di valori, posti a fondamento di diverse visioni di convivenza sociale e di sviluppo. Le decisioni e i cantieri diventano l’autorappresentazione polifonica di collettività, che paiono sempre più sovente frammentate e disorientate. Se la letteratura ha la forza evocativa di raffigurare scenari sociali e culturali complessi, nel nostro caso è forse Aurélien Bellanger il romanziere che ha restituito l’affresco più articolato e visionario degli interessi e delle emozioni suscitati dalla pianificazione territoriale e dalla costruzione delle infrastrutture. Le vicende biografiche ed affettive di decisori politici ed élites di potere, imprenditori e attivisti ecologisti, famiglie aristocratiche e sette esoteriche, tecnici e mitomani, eruditi locali ed archeologi professionisti ruotano attorno all’infrastrutturazione di una regione rurale francese, secondo una narrazione che scoraggia un’interpretazione meramente tecnocratica delle operazioni infrastrutturali. Nei nodi cruciali del romanzo, è l’archeologia che emerge come fattore epocale, perché forse – tra le tante discipline coinvolte – è quella che tocca i tasti più profondi della persona e della collettività: «l’archéologie était la science du jugement dernier» (p. 172).

Senza sbarazzarsi troppo sbrigativamente delle venature più personali ed emotive dell’esperienza archeologica – viste giustamente con sospetto da chi ne fa una professione o un ambito di ricerca scientifica – è interessante chiedersi quali “immaginari archeologici” siano sottesi sia alle scelte delle comunità, sia alle pratiche professionali. Le 40 voci che hanno costruito questo fascicolo offrono una rassegna di diversi tipi di relazioni giuridiche e tecniche tra l’archeologia e le altre discipline architettoniche e territoriali, ma soprattutto presentano uno scenario articolato di relazioni umane, di aspettative e di timori, con un ventaglio articolato di posizioni, che la Rivista non ha ritenuto opportuno normalizzare o escludere.
I nostri interlocutori sono stati invitati a non eludere la narrazione di conflitti e compromessi, perché sappiamo bene che la tutela del patrimonio culturale non può che essere un tema “divisivo”: al di là della facile retorica consensualista sui beni culturali come risorsa, come eredità, come identità ecc., quando si entra nel merito dei valori e degli interessi sottesi alle politiche territoriali il ragionamento si fa necessariamente più fine, più prudente, più sommesso. Il patrimonio archeologico rischia sempre di essere brandito come strumento identitario, o di essere smantellato come fardello costoso e inutile: il progetto – culturale, sociale e tecnico – può essere lo strumento che, con fatica e pazienza, rimonta secondo disegni coerenti istanze, visioni e prospettive divergenti.
Per questo la Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino ha deciso di interrogarsi sul rapporto tra archeologia e progetto, da intendersi in senso lato come relazione tra memoria e progetto o – in senso ancor più ampio – come relazione tra memoria e speranza. La declinazione dei rapporti tra valori storici, valori economici e valori umani non può essere demandata a singole professionalità o competenze. La correttezza giuridica ed economica delle operazioni – in un orizzonte di fondo di legalità, di trasparenza e di equità socio-economica – è un requisito su cui nessuna collettività può avere incertezze, ma che rischia di diventare arida burocrazia se rimane svuotato da una visione di senso complessiva, o se diventa ring di contenziosi senza fine.
Il Comitato scientifico della Rivista e i curatori hanno invitato alcune voci autorevoli per offrire un quadro di sintesi, nella sezione Scenari, sul rapporto tra patrimonio archeologico e territorio dal punto di vista della ricerca e della comunicazione archeologica (Manacorda, Volpe, Augenti), della tutela del patrimonio e del paesaggio (Papotti, Videtta) e della pianificazione territoriale e paesaggistica (Marson).
Una call tematica ha raccolto Esperienze sul rapporto tra archeologia e territorio, con l’ambizione di testimoniare l’azione di professionisti ed enti del mondo delle infrastrutture (idrauliche, viarie, ferroviarie, portuali) e della pianificazione. Tali voci (trentatré per la precisione) analizzano sotto punti di vista complementari la questione della sostenibilità – sia economica,  sia sociale – degli interventi archeologici, sottolineando l’importanza del dialogo preliminare sui metodi, sugli obiettivi, sui tempi e sui processi decisionali. Altre testimonianze vengono del mondo della tutela e da quello della ricerca universitaria più attenta all’impatto sociale degli studi: il passaggio da un atteggiamento accademico o vincolistico a un’attitudine progettuale aperta alla società si misura con norme e procedure sovente intrecciate, a volte ambigue, se non contraddittorie, ma trova spazi possibili di sperimentazione, anche con un positivo rapporto tra pubblico e privato. Molti dei contributi sono firmati a più mani, associando riflessioni di architetti e ingegneri, archeologi (professionisti, imprenditori, dipendenti di società e imprese, oltre che ministeriali e universitari) e amministratori (pubblici e privati). Una parte importante è affidata a voci istituzionali dell’associazionismo professionale, che portano all’attenzione del nostro pubblico di lettori (prevalentemente architetti e ingegneri) i problemi di una professionalità che ha una storia istituzionale travagliata, e il cui riconoscimento sociale ed economico resta ancora modesto, con esiti talora frustranti rispetto all’investimento profuso in studio e in passione civile.
La questione della comunicazione attraversa quasi tutti i contributi: comunicazione tra istituzioni, tra professionisti e collettività, tra accademia e impresa. La discussione critica e schietta di esempi concreti, di pratiche (buone, e non necessariamente eccellenti), di successi e compromessi è il migliore contributo che una Rivista come la nostra – di professionisti e docenti – può offrire al dibattito, senza pretese di esaustività, sistematicità o univocità.

 

Questo fascicolo è stato ideato e ha preso forma in un anno in cui i termini rischio e prevenzione hanno assunto un significato drammatico nelle nostre famiglie e comunità: immagino che discutere di archeologia preventiva e di archaeological risk assessment abbia comportato, per gli autori, uno sforzo di realismo e di visionarietà al tempo stesso, mentre i cantieri e le attività di ricerca erano bloccati o procedevano a singhiozzo. Un ringraziamento personale, dunque, a professionisti, imprenditori, docenti, funzionari pubblici e privati che hanno avuto la pazienza e la tenacia di credere in questo progetto, condividendo le proprie esperienze. L’emergenza sanitaria ha fatto emergere come la nostra società sia ancora a disagio sia nel progettare la prevenzione, sia nel convivere con il rischio. Da questo punto di vista, si parva licet, l’archeologia preventiva può offrire un contributo pedagogico più ampio rispetto ai suoi obiettivi operativi, in quanto fa convivere metodi scientifici verificabili e procedimenti giuridici trasparenti con l’apertura permanente e consapevole all’imprevisto e all’imprevedibile. Il rigore di metodo non esclude mai l’incognita del rischio: il metodo archeologico educa a vivere – responsabilmente – nell’incertezza. Chiudo quindi con un’altra pagina di letteratura, tratta dal racconto Notizie degli scavi, di Franco Lucentini, che evoca come una persona semplice – il “professore”, garzone in una casa-squillo romana nel secondo Dopoguerra – visitando una deserta Villa Adriana si renda conto di come il proprio mondo instabile e pieno di incertezze si rispecchi nell’incertezza e nella labilità congetturale dell’archeologia, quasi che in un eterno presente l’incertezza del futuro possa riverberarsi nell’incertezza del passato:

 

Dentro poi non c’era nessuno. Camminavo davanti a una fontana lunga senz’acqua, sotto un muraglione che sul libretto diceva che era, ma che poi diceva che l’identificazione era inaccettabile, essendo che era molto più grande e la forma nemmeno corrispondeva. Diceva che insomma, veramente che era, non si sapeva. […] I muri cascati che venivano dopo, invece, diceva che erano quasi sicuramente dell’antico ingresso o di un altro edificio di destinazione incerta, ma che diceva che forse era di costruzione anteriore. […] Siccome poi lì sopra pare che faceva parte della zona a monte non ancora esplorata, diceva che ogni identificazione era arbitraria e di guardare solo gli olivi secolari, tra le rovine della cosiddetta Accademia, e di stare attenti ai cani. Allora ero andato a vedere questi ulivi e m’ero messo a sedere su un muro rotto, davanti a uno spiazzo che dall’altra parte c’era un edificio che allora magari faceva parte di questa cosiddetta Accademia.

Andrea Longhi, Direttore di «A&RT» e co-curatore del fascicolo

 

Buona lettura.

 

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