Editoriale

a. LXXIII, N. 1. Con il corpo capisco / Her body knows (Baguf ani mevina)

Editoriale del direttore

Andrea Longhi

 

Ai professionisti intellettuali cui la Rivista si rivolge – ingegneri e architetti – è affidata la cura della qualità della vita quotidiana di persone, famiglie e comunità. Se al medico o all’avvocato ci si rivolge nel momento del bisogno, del rischio, del disagio, è la vita ordinaria che viene presa in carico da chi si occupa di luoghi, dimore, paesaggi, strumenti, strutture, sensori, protesi ecc. I mestieri delle cose sono in realtà i mestieri delle persone, e per le persone. Gli interventi progettuali sulle cose possono trasformare le azioni in gesti, ossia possono offrire significati culturali a quei movimenti e a quelle soste che ritmano la vita di ogni giorno; possono trasformare l’ineluttabile scorrere del tempo fisico in una sequenza di momenti, ricordi, speranze, attese ed emozioni, che possono esaurirsi nel gesto stesso e nella breve vita di una cosa, o possono segnare un’esistenza, o addirittura un’epoca. Per questo è enorme la responsabilità sociale – e personale – di architetti e ingegneri (ed estensivamente di tutte le professioni che si occupano di ambiente costruito, come pianificatori, paesaggisti, designers, conservatori ecc.), ed è gravosa la responsabilità di chi forma architetti e ingegneri, tanto nel percorso educativo quanto – come la nostra Rivista – nell’aggiornamento permanente.

Sfogliando questo fascicolo di «Atti e Rassegna Tecnica», mi chiedo se gli strumenti di lavoro tradizionali di architetti e ingegneri (il disegno, il calcolo, la parola eloquente) consentano di arrivare alla comprensione profonda dei problemi che lacerano la società, e soprattutto se consentano di proporre soluzioni lungimiranti e popolari. Un percorso progettuale che lavori con parole, disegni e immagini forse difficilmente può arrivare a sondare, quantificare e qualificare il cuore dei problemi, ha bisogno di altro. Certamente le scienze sociali e le scienze umane intrecciano quotidianamente i loro studi con lo spazio, l’ambiente e il paesaggio in cui operano architetti e ingegneri, ma le dimensioni relazionali della prossimità, della liminalità e dell’alterità – che sono le dimensioni su cui ingegneri e architetti lavorano – sfuggono agli strumenti analitici e descrittivi professionali. Scorrendo i progetti del concorso SIAT su Rifugi minimi per senzatetto, ho colto la suggestione che forse è con il corpo (o addirittura con il corpo a corpo”) che architetti e ingegneri possono sperare di potenziare i propri strumenti di comprensione e di progettazione: la situazione estrema qui proposta spinge a cercare strumenti non intellettuali o astratti per capire, ospitare e trasformare quei corpi stanchi e disorientati che certamente non abitano le dimore patinate e smart delle riviste di settore (peraltro, di quale settore?). La scala corporea e umana del tema hanno probabilmente imposto ai candidati di cimentarsi con strumenti di comprensione non convenzionali rispetto alla loro formazione tecnica. Il concorso SIAT Young non è stato dunque solo l’espressione di una pur lodevole istanza etica (doverosa, peraltro), tanto meno la manifestazione di un pietismo di maniera, o di una rincorsa all’emozione del momento: il concorso ha fatto emergere la necessità di formare alla fatica dell’umanità, alla fatica del corpo e alla fatica del pensare critico i giovani professionisti, che rischiano di crescere diseducati nei confronti di una responsabilità che non è facoltativa, o esornativa, ma parte imprescindibile delle professioni stesse.

Mi è dunque tornato in mente, ragionando sul rapporto tra il “corpo” dei candidati e i “corpi” sottesi alla loro ricerca progettuale, il titolo di un noto racconto di David Grossman, Col corpo capisco, che alcuni anni fa aveva toccato le mie corde più profonde di studioso ed educatore. Rileggendo il racconto di Grossman mentre il nostro fascicolo prendeva forma, e vivendo il racconto stesso come riflessione su forme non scritte e non dette di conoscenza, ragionavo sul valore dello sforzo di orientare gli studi tecnici non tanto verso un’interdisciplinarità astratta, teoretica, perfetta, ma piuttosto verso una interdisciplinarità corporea, che educhi a mettere al centro degli studi e delle ricerche, sia tecniche sia umanistiche, la cura delle persone. Il corpo non è solo l’oggetto di studio (non parliamo solo di ergonomia o di prossemica, ovviamente), ma è lo strumento di studio: non le parole, non gli algoritmi, non le realtà virtuali, ma i cinque sensi del nostro corpo sono un medium cognitivo fondamentale per ingegneri e architetti. Cognitivo, non solo affettivo, emotivo o di loisir. Peraltro, approfondendo la lettura di Grossman, è emersa anche la parzialità della traduzione del titolo in lingua italiana, cui sfugge la possibilità di evidenziare la natura maschile e femminile del corpo, che invece la lingua ebraica consente, e che la traduzione inglese tenta di restituire. Al di là dei virtuosismi lessicali sulle declinazioni di genere di professioni e mansioni, ciò che interessa architetti e ingegneri per il loro compito professionale è comprendere anche la dimensione maschile e femminile dei corpi e dei sensi, che diventa ineludibile tema di progetto, e non solo di linguaggio politicamente corretto.

Con la medesima lente interpretativa possiamo leggere anche le altre parti del fascicolo.

Gli atti di un incontro pubblico promosso dalla SIAT, relativo alla mobilità, evidenziano come il tempo speso per muovere il proprio corpo abbia misure e strumenti diversi rispetto al tempo che ciascuno impiega per muovere i propri pensieri e i propri affetti, ma al tempo stesso evidenziano drammaticamente il nesso tra i due tipi di spostamenti, che solo strumenti tecnici raffinati possono umanizzare.

Anche tra le righe dei saggi raccolti con l’open call – strumento che non predetermina né temi né metodi – emerge l’umanità di alcune scelte compositive. Lo studio dei punti di vista sottesi all’arco di Augusto a Susa sposta l’attenzione dal manufatto artistico alla corporeità di chi quel manufatto frequenta, attraversa e osserva, in relazione con l’ambiente naturale e costruito. Il racconto del percorso espositivo di Issogne testimonia la fatica di passare da apparati espositivi “letti” e “visti” ad allestimenti in cui è l’esperienza corporea nel suo insieme a farci “capire” la storia. Col corpo capisco può essere un programma professionale anche di archeologi e museografi, dunque.

Lascio al lettore la possibilità di ricucire altri fili, tra i saggi e le recensioni. Rimando solo alla “corporeità” del drammatico salvataggio di opere d’arte offese da catastrofi naturali e antropiche, in cui la cura dei corpi umani feriti o esanimi si affianca – drammaticamente – alla cura dei manufatti artistici danneggiati, che nei secoli sono diventati quasi pezzi di corpo di comunità e famiglie. O rimando infine alla mostra di scenografie per melodrammi, in cui la concretezza dei corpi degli interpreti si deve prestare, quotidianamente, alla corporeità immateriale dei relativi personaggi, e si offre alle emozioni e alla percezione degli spettatori, ognuno dei quali, con i propri sensi, sente una storia diversa in una scenografia fisica e intima diversa.

Buona lettura.

Andrea Longhi,
Direttore di «A&RT»

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